IL MASCHIO SELVATICO
C. Risè
12,5 x 19, 166 pag.
Edizioni red! – 2002

Fare esperienza muovendosi.” Con queste parole si concludeva la recensione precedente ( cfr. primavera 2007 ) cogliendo, nella tensione emotiva che trapelava dagli scritti di Roberta De Monticelli e di Alessandro Baricco, l’inquietudine di chi cerca di comprendere la trasformazione del senso del corpo a cui tutti siamo sottoposti, in questo inizio di III millennio.

Il cambiamento in corso, che da una parte ci chiama ad approfondire la nostra percezione emotiva ( De Monticelli ) e dall’altra ci invita a sperimentare la molteplicità delle esperienze corporee garantite dall’evoluzione tecnologica ( Baricco ) rischia di travolgerci se prima non abbiamo almeno in parte compreso chi siamo.
Per questo abbiamo iniziato, attraverso le recensioni precedenti, un percorso culturale tra le varie società umane, trovando in ognuna di esse la testimonianza del tentativo di comprendere il proprio corpo, cioè noi stessi.
Ovunque, tranne che in Occidente, abbiamo incontrato modelli interpretativi del vivere fortemente chiusi in sé stessi, nei quali ogni attività umana è stata nel tempo rigidamente codificata.
Proprio tale rigidità è risultata essere alla fine il freno allo sviluppo di queste culture, incapaci di adattarsi all’evoluzione tecnologica.

Così, mentre l’Occidente, impaurito dal proprio sviluppo, viene sempre più attratto da tutto ciò che in qualche modo si rifà ad una dimensione apparentemente meno tecnica del vivere ( nei decenni scorsi l’India, poi il sud del mondo; ora è “in arrivo” la Cina ), il resto della popolazione mondiale va abbandonando le proprie antiche regole per passare dalla cultura tradizionale a quella tecnologica.

A soffrire maggiormente di questo disorientamento sembra essere il maschio Occidentale, stretto tra le richieste dell’ambiente in cui vive ( cfr “Psiche e techne” ) e un sempre più evidente bisogno di re-identificarsi.

L’uomo del III millennio ha un bisogno vitale di sentirsi prima di tutto maschio, poichè tutto attorno a sé sembra condurlo ad un insensato rimescolamento dei generi.

La figura che è venuta a mancare ( complici due guerre mondiali che hanno ucciso milioni di uomini e uno sviluppo tecnologico senza precedenti che prevede, per il suo funzionamento, la intercambiabilità totale tra maschi, femmine e macchine), è stata quella del padre.
La figura che, con la sua sola presenza, colloca il figlio nel mondo, trasmettendogli l’identità.
Afferma infatti Claudio Risè, in questo suo splendido saggio: ” Non c’è dubbio che senza la capacità, l’iniziativa espressa dalle donne negli ultimi quarant’anni, sia nella famiglia sia nella società, la situazione sarebbe molto peggiore per tutti, a cominciare dai maschi.
Tuttavia ci sono molte cose, indispensabili a una piena vita maschile, che una donna non può trasmettere. Si tratta, in particolare, dell’istinto maschile, che la donna non ha.
Ci sono donne che hanno insegnato a uomini-bambini a essere coraggiosi, ad avventurarsi nella natura, a girare il mondo, a rischiare per le proprie idee. Che hanno cercato di trasmettere loro le figure interiori del guerriero ( che difende, a rischio della vita, i confini del suo territorio, anche psicologico ), del cacciatore ( che cerca l’animale, l’istinto, lo cattura, lo mangia, lo introietta ), dell’amante ( che ama il femminile nella sua bellezza e diversità, e lo onora ).
Ci sono anche uomini-figli che hanno imparato tutto questo.
Ma nella loro relazione con la propria identità maschile è rimasto un buco che li rende in qualche modo vacillanti. E’ un vuoto pieno di nostalgia, di un amore che non può esprimersi.
L’amore per il padre che non c’è stato.
Una figura che silenziosamente, senza parole, con la sola vicinanza fisica, portando il figlio nei suoi luoghi amati, gli trasmetta personalmente le immagini indispensabili affinché la sua vita possa continuare nella gioia: il viaggiatore in terre sconosciute, l’eremita, l’amante.
Solo attraverso la trasmissione personale, l’iniziazione al maschile passata da un uomo all’altro, il giovane integra in sé, naturalmente, il tono affettivo maschile. Ed entra in sintonia reale e profonda col mondo degli uomini.
Altrimenti la situazione è quella del sogno, descritto da Robert Bly, di un giovane cresciuto in un ambiente dominato da figure femminili. Il giovane sogna di correre in un branco di lupe. Il branco arriva al fiume. Le lupe si sporgono sull’acqua che riflette la loro immagine. Anche il giovane guarda, ma non vede nulla. La sua identità maschile, nel viaggio con queste donne forti e coraggiose, non ha potuto formarsi: lo specchio della natura non la riflette
” (pag. 129 – 130 ).

Solo un uomo è in grado di trasmettere la propria mascolinità ad un altro uomo: di fronte alla trasmissione esperienziale ( ” di padre in figlio ” ) la divisione mente-corpo e tutte le ” psicologie ” ritrovano la loro giusta collocazione, quella cioè di rappresentare dei modelli interpretativi del nostro vissuto, non il vissuto in toto.

Solo il padre è in grado di fornire al figlio la forza per superare la paura di vivere, ” raccontandogli ” sé stesso, portandolo nel bosco ad attingere alle forze della natura, quelle forze che, da sempre, nutrono la parte selvatica che è in noi.
Queste considerazioni, apparentemente ovvie, vengono poi smentite dalla quotidianità: ogni giorno assistiamo alla rappresentazione di un maschio che ha paura di sé stesso.

Abbiamo paura di venire emarginati all’interno della società in cui viviamo, facilmente ne diventiamo dipendenti, in una sorta di prolungamento infinito dell’attaccamento alla figura materna. Al di là della apparente rincorsa al successo e al denaro, ci intimorisce la percezione di dover affrontare delle vere e proprie iniziazioni, a cui la nostra società non ci prepara più.

E così, cullati da un tessuto sociale sempre ” più mammone “, cominciamo ad aver paura della nostra stessa forza, di quell’essere selvatici che è l’essenza dell’essere maschi.
Claudio Risè illustra sapientemente questi concetti dando al lettore, attraverso l’utilizzo delle saghe medioevali, anche alcuni strumenti per ritrovare sé stesso, a partire dal contatto rinnovato e ritrovato con la natura.

Il giovane maschio, specie se inserito in una situazione sociale che preferisce il manierismo alla spontaneità, ha un bisogno vitale di entrare nello spazio fisico e psicologico del selvatico.
Senza questa iniziazione al lato oscuro dell’energia maschile, l’uomo soffre di un vuoto.
Che può manifestarsi direttamente in forma di depressione, come accade con sempre maggiore frequenza dall’inizio degli anni Novanta. Oppure può manifestarsi con i toni e i modi della mania: il maschio ” vuoto ” sarà in questo caso in movimento continuo, per non affrontare mai il buco che sente dentro di sé.
In entrambi i casi l’uomo soffre di una nostalgia. Il selvatico è lontano, e con lui una parte dell’energia maschile senza la quale un uomo non può vivere con pienezza la propria esistenza
( pag. 79 ).

Il bosco come sistema passante ( cfr. primavera 2007 ), come luogo generante e iniziatico, dove la forza presenta i suoi lati più oscuri, il suo pulsare ritmico e altalenante in cui immergersi fino a ritrovare il proprio OM SELVAREK, il proprio lato selvatico e, attraverso questo passaggio, divenire compiutamente uomini.

Muoversi verso il bosco e lì perdersi, liberarsi.
Trovare in esso gli odori, i sapori, i rumori, i contatti, le visioni che nutrono il cuore.
Così da poter guardare in faccia i propri lati oscuri e la solitudine che li accompagna, e sentirsi uomini in cammino.

Il nostro concetto-guida ( cfr. primavera 2007 ) diventa così:

Orientarsi verso l’altro carnalmente, fidarsi del proprio corpo, divenire il proprio corpo, con quella riconoscenza per essere stati concepiti e poi messi al mondo che non è mai data a priori, ma va maturata nel tempo, facendone esperienza muovendosi.
Muoversi verso il bosco e lì perdersi, liberarsi.
Trovare in esso gli odori, i sapori, i rumori, i contatti, le visioni che nutrono il cuore.
Così da poter guardare in faccia i propri lati oscuri e la solitudine che li accompagna, e sentirsi uomini in cammino.

Il movimento verso l’altro da sé come sentimento primario.

Fare esperienza muovendosi. Fermarsi è malattia.

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